Influenza sociale: perché ascolta gli amici e non me?!
Durante la crescita dei figli i genitori si possono trovare di fronte un “nemico” inaspettato, ossia i loro amichetti. Di Mariagiovanna Grifi
 Aristotele diceva che l’uomo è un «animale sociale» e gli studi di psicologia più recenti gli stanno dando innegabilmente ragione. Non tutti sanno, infatti, che sono stati individuati dei neuroni specifici (i “neuroni specchio”) che potrebbero dimostrare la predisposizione naturale dell’essere umano ai rapporti sociali. Pare che questi neuroni si attivino per farci condividere le emozioni delle persone che ci stanno intorno ed emozionarci con loro. Una sensibilità sociale che avrebbe origine proprio nel cervello, insomma!
Questa potrebbe essere una delle spiegazioni ai risultati di altri importanti studi di psicologia sociale che hanno posto l’attenzione su quanto gli individui siano inclini a farsi influenzare dagli altri.  Che significa “influenza sociale”? Significa che noi tutti, piccoli e grandi indistintamente, in presenza di altre persone, possiamo cambiare i nostri pensieri, i nostri comportamenti e persino i nostri sentimenti. L’influenza degli altri è potentissima, anche se tendiamo a sottovalutarla. Quando un bambino o un adolescente si lascia influenzare dagli amici la reazione degli adulti è sempre un po’ incredula, piuttosto indignata. Soprattutto nel caso in cui ascoltare gli amici corrisponde a disobbedire ai genitori. Si tratta di una questione parecchio complessa.
 Esiste una tendenza innata dell’uomo a seguire la maggioranza. A uniformarsi al pensiero e al comportamento degli altri. Una tendenza che parte da un’esigenza molto semplice: il bisogno di appartenenza, il desiderio di sentirsi parte di un gruppo e la possibilità di instaurare relazioni forti e sincere. Ma a quale prezzo? A volte per “farsi degli amici” si è chiamati a superare delle prove. È una faccenda antipatica, ma reale. Gli amici, prima di diventare amici, fanno una sorta di selezione, verificano le caratteristiche della persona e, anche, la sua eventuale fedeltà. Questo accade tra adulti, figuriamoci tra bambini! Il problema è: se il gruppo chiede (o suggerisce) al bambino di fare qualcosa che ai suoi genitori non va bene, il bambino può scegliere di obbedire ai suoi e rinunciare agli amici o, molto più probabile, tentare la fortuna per ottenere l’amicizia.
Gli esperimenti di psicologia sociale hanno dimostrato che un’alta percentuale di adulti, pur di non essere esclusi dal gruppo, sono disposti a cambiare le proprie abitudini, calpestare le proprie idee, fare anche del male se necessario. La paura di rimanere soli per alcuni è uno spettro che terrorizza, una minaccia incombente. Vale ancor di più per i bambini che, nel percorso di crescita, hanno bisogno di sperimentare e sviluppare sia le loro capacità personali che sociali. Gli altri sono importantissimi. Questo non significa che i genitori debbano sottostare ai “giochi” degli amichetti che, improvvisamente, si intromettono nel rapporto con il loro bambino. Semplicemente, nell’intervenire e riportare l’ordine e l’armonia familiare, ricordarsi sempre che quegli “altri” sono una forza psicologica potentissima, lottare contro di loro potrebbe avere delle conseguenze disastrose sia a livello emotivo che comportamentale. Il bambino potrebbe rinunciare agli amici e soffrire, oppure decidere di ascoltarli e ribellarsi ai genitori. Cosa fare allora?
Focalizzare più l’attenzione sul proprio figlio (e non sui piccoli “nemici”), insegnargli a porre su una bilancia le sue azioni, i suoi pensieri e le sue emozioni… Con il tempo imparerà a soppesare anche le persone che ha intorno.
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L’attaccamento e l’angoscia della perdita
Il bambino piccolo instaura un tale legame con la madre da rendere difficile ogni tipo di separazione, scopriamolo attraverso gli studi di John Bowlby. Di Mariagiovanna Grifi
John Bowlby è lo psicologo a cui si devono le maggiori conoscenze relative al legame di attaccamento che il bambino instaura con la madre. Un rapporto affettivo che permette al piccolo di acquisire sicurezza e fiducia nelle relazioni, fondamentale per lo sviluppo delle emozioni e dei suoi processi cognitivi. Infatti, proprio la buona riuscita di un legame di attaccamento “sicuro” spinge il bambino a osservare la madre e prenderla come esempio: comprenderne le emozioni e imparare a provarle lui stesso, ragionare pian piano sui suoi comportamenti e attivarne di simili. Bowlby si sofferma sul rapporto madre-bambino distinguendo due tipi di attaccamento: sicuro e insicuro. Una madre attenta e responsiva (capace di rispondere in modo immediato e adeguato alle richieste e ai bisogni del figlio) dà vita a un attaccamento sicuro favorendo nel bambino relazioni serene e stabili con gli altri. Un attaccamento insicuro, invece, deriva da una incapacità del genitore di mantenersi costante nella cura del piccolo: è il caso delle madri che si dimostrano poco affettuose, o ansiose, o concentrate su altre attività nei momenti delicati in cui la loro attenzione dovrebbe essere sul bambino.
Un altro aspetto molto studiato da Bowlby è la separazione. Quando il bambino viene separato dalla madre, anche per pochissimo tempo, soffre enormemente. Ciò che gli provoca questo dolore lancinante non è la mancanza temporanea della madre, ma la paura (e spesso la convinzione) che la madre non tornerà più. L’angoscia provata dal bambino viene da Bowlby paragonata al lutto. Il bambino non sa che la madre tornerà, il suo allontanamento è percepito come perdita. Questo spiega i suoi pianti disperati, per esempio nei primi tempi che viene lasciato al nido. E spiega perché ci vuole tempo per accettare che la madre vada via e per rendersi conto che poi tornerà. Ci vogliono delle strutture mentali che si formano pian piano, che permettano al bambino di ragionare anche su ciò che non è nel suo campo visivo; alcuni studiosi (in primis Piaget), infatti, ritengono che per il bambino molto piccolo solo ciò che vede esiste. Infine, ci vogliono nuovi legami, per esempio con le educatrici, che aiutino il bambino a superare la sensazione di perdita e sentirsi al sicuro anche senza la presenza dei genitori.
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La motivazione a imparare
Appartiene solo ai geni o tutti i bambini possono trovare una motivazione allo studio? Piccoli spunti di riflessione. Di Mariagiovanna Grifi
Ci si lamenta sempre che le nuove generazioni non hanno voglia di studiare, ma forse pochi si preoccupano di capire il perché. Intanto sarebbe opportuno liberarsi, piccoli e grandi, dei luoghi comuni legati alla motivazione: essa non dipende necessariamente dalla personalità dell’alunno o dalla bravura dell’insegnante, né è diretta conseguenza di un atteggiamento esortante dei genitori.
La motivazione è un concetto molto più complesso, che deriva da diversi fattori psicologici e subisce innumerevoli influenze esterne. Prima di tutto ogni comportamento motivato necessita di essere “attivato”, stimolato e diretto verso un obiettivo. Sembrerebbe superfluo – ma purtroppo non lo è – dire che prima di tutto per essere motivati bisogna sapere cosa fare e perché, altrimenti ci sentiamo solo esecutori di ordini altrui. Vale per noi adulti e vale anche per i bambini. Spiegare accuratamente in che consiste il compito da svolgere, che risultato bisogna ottenere e per quale ragione già sarebbe un primo passo verso la “attivazione” motivazionale.
In secondo luogo è importante che il bambino si senta competente, ossia in grado di eseguire l’incarico. La maggior parte degli insuccessi è il frutto di una previsione di fallimento da parte del soggetto, il quale non si sente capace. Sicuramente lavorare sull’autostima, sulla percezione di competenza e sulle aspettative facilita la motivazione. A questo, però, si aggiunge il valore o significato che viene attribuito al risultato da raggiungere, e questo è un altro punto problematico. Imparare qualcosa, addirittura fino agli ultimi anni delle superiori, viene considerato un dovere, non un piacere, per cui si studia per far contenti i genitori o per non deludere gli insegnanti. Difficilmente un ragazzo penserà che lo studio sia utile a migliorare il suo Sé. Le ricerche psicologiche hanno dimostrato, comunque, che i premi verbali (lodi e complimenti) hanno maggiore effetto rispetto a quelli materiali (permessi, voti, regali) proprio perché contribuiscono, in maniera indiretta, al miglioramento della propria autostima. Certo sarebbe bellissimo se il bambino capisse che ogni tassello di conoscenza lo rende una persona migliore, più ricca e più capace, ma non è impossibile se già da piccolissimo fosse stimolato a comprenderlo. In fondo esistono tanti studenti meritevoli fortemente motivati.
Infine non si possono tralasciare le influenze ambientali ed emotive. Il gruppo, le situazioni e lo stato d’animo sono fattori potentissimi sulla motivazione e sulla demotivazione. Molti affermano di voler andare bene a scuola per dimostrare agli altri (i compagni) di non essere incapaci, altri sostengono di voler essere i migliori a tutti i costi, altri ancora si preoccupano di essere ben preparati anche per aiutare gli altri. Sono tutte convinzioni di tipo sociale che condizionano la motivazione: la paura di essere esclusi da un gruppo o di essere derisi, il bisogno di affermazione di sé e di approvazione da parte della scuola, l’istinto alla cooperazione e alla solidarietà. Conoscere gli obiettivi motivazionali dei bambini, il perché fanno qualcosa, facendo loro semplici domande, potrebbe essere un ottimo punto di partenza per lavorare sulla motivazione ad apprendere. Naturalmente essa è facilitata in un contesto sereno, tranquillo, rassicurante, quando il soggetto trova sostegno, aiuto, disponibilità e affetto. Sono le piccole cose che li rendono grandi.
Prof. Mariagiovanna Grifi
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La resilienza: conosciamo le nostre risorse
Ognuno di noi è capace di reagire di fronte alle difficoltà, di non arrendersi per un insuccesso, di risollevarsi dopo aver subito un trauma. Di Mariagiovanna Grifi
Pensiamo di essere fragili, ma non lo siamo. Possediamo potenzialità innate di cui neanche conosciamo l’esistenza, che dobbiamo allenare, o risvegliare, quando ne abbiamo bisogno. La resilienza è una di queste. E oltre a poterla mettere in atto di fronte alle problematicità possiamo promuoverla nei nostri figli per aiutarli ad affrontare i “momenti no”.
In fisica la resilienza è quella proprietà dei corpi che permette loro di adattarsi, piegarsi e deformarsi senza spezzarsi. Un’immagine che ben spiega quella che in scienze umane si configura come la capacità di reagire di fronte agli insuccessi, alle difficoltà, ai fallimenti, di non arrendersi, di non soccombere, ma anzi di rimettersi in gioco. Dopo aver subito un trauma o aver avuto un problema serio, la resilienza si manifesta nell’avere la forza di rialzarsi e tornare alla propria vita. Le situazioni in cui le persone subiscono un forte stress che potrebbe farle crollare sono varie e disparate, dalla malattia alla morte di familiari, da questioni personali di salute a calamità naturali, da esperienze di violenza alle guerre. In tutte queste circostanze si scatenano dei fattori di rischio per la sanità mentale dell’individuo che lo mettono a dura prova.
Fortunatamente esistono strategie per affrontare queste condizioni catastrofiche, strategie che bisogna incamerare sin da piccoli, con l’aiuto di genitori, parenti e amici. Prima tra tutte l’emozionalità positiva che consiste nel senso dell’umorismo, in quella capacità di sdrammatizzare o comunque di guardare in una prospettiva più positiva le criticità. A protezione dallo stress contribuiscono anche i forti valori morali, il supporto di una rete di rapporti rassicuranti e sinceri e le esperienze passate. Chi ha sperimentato molti momenti difficili può essere saturo, e meno pronto a superarne altri, oppure l’esposizione a traumi infantili potrebbe aver favorito una personalità resiliente. Una strategia per fronteggiare problemi, traumi o stress è sicuramente quella di non negarli, ma di dare loro un nome, accettarne la presenza ed essere anche pronti a chiedere aiuto ad altri. Sicuramente chi si prende cura della persona che ha subito uno shock può aiutarlo incrementando la sua autostima, facendogli credere nelle potenzialità e nelle possibilità di superare il momento difficile.
Anche in ambito scolastico la resilienza è una grande risorsa per lo studente. Un insuccesso spesso diventa fonte di ansia al punto da abbassare notevolmente il senso di autoefficacia del soggetto che non si sente più in grado di svolgere quel determinato compito. L’alunno resiliente, invece, continua a mantenere la motivazione e il desiderio di riuscire nonostante le ripetute avversità, anzi è sempre pronto a riprovare. Questo dipende molto dal sostegno sociale, della famiglia e della scuola, dalla conoscenza concreta di ciò che sta facendo (compiti e obiettivi) e dalla percezione di sé (quanto si sente intelligente? Qual è il suo livello di autostima?). Sono tutti fattori di protezione che i genitori possono trasmettere e insegnare ai figli, spiegando loro che le difficoltà esistono, ci sono e ci saranno sempre, ma affrontarle con positività le rende sicuramente meno disastrose.
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L'affidamento familiare
Incapace di far valere i suoi diritti, il minore ha bisogno di tutela. Proveniente da una famiglia difficile o da un paese in guerra, il minore deve essere accolto e aiutato nel suo sviluppo psico-sociale. Il minore è il futuro. di M. Grifi
Non sostenere il minore, privarlo delle sue esigenze, delle sue potenzialità e dei suoi desideri, significa non guardare avanti. Deliberare una legge sui minori è di quanto più difficile si possa pretendere dalla magistratura. La legge è impersonale e razionale. L’approccio al minore è sempre personalizzato e intriso di emozioni. Alla luce di queste osservazioni, ben venga un dialogo aperto e proiettato verso un percorso da fare insieme, dove energie e competenze diverse si uniscano nel singolo interesse del minore. È quello che è emerso durante l’incontro “L’affido: ruoli e competenze” tenutosi venerdì 15 aprile 2011 presso la Sala delle Collezioni di Palazzo Bastogi a Firenze: non solo il bisogno di modificare alcune norme, ma soprattutto di intensificare gli interventi secondo un’ottica di integrazione ed in nome di una cultura dell’ accoglienza e della solidarietà.
 Ad aprire i lavori l’esperienza di un “figlio affidato”, Alfredo Toti (nella foto con Maria Grazia Campus), oggi sessantenne ed autore del libro “Il selvaggio della Maremma”. Nato in Svizzera ed abbandonato dai genitori in un ospedale milanese a soli tre anni perché diventato “scomodo” a causa di una paralisi, Alfredo registra un lungo vissuto di separazioni, affidi, trasferimenti. Grazie agli incontri fortunati ed al volontariato ha sempre affrontato la vita con coraggio e audacia, sconfiggendo una malattia incurabile e riuscendo a realizzarsi come voleva. Una testimonianza diretta di quanto il reale aiuto ai minori può veramente segnare in positivo il loro futuro.
Il primo riconoscimento dei diritti del minore da parte della Costituzione assegna ai genitori il diritto ed il dovere di accudire i propri figli. Decaduto il secondo, si perde anche il primo. L’istituto dell’affido è temporaneo, regolamentato con lo scopo di reintegrare il minore nella sua famiglia d’origine il prima possibile. L’aspetto giuridico è trattato dall’avvocato Sibilla Santoni (nella foto sopra) ed il Giudice Onorario, lo psicologo Mario Ruocco. Entrambi evidenziano quanto la lunga durata abbia un peso enorme in materia minorile: causa della dilatazione dei tempi sono l’iter giudiziario e la mediazione dei servizi sociali.
 Ruocco (foto a lato), però, sottolinea che i “filtri” (quali l’assistente sociale e la procura) hanno il compito di tutelare e controllare i soggetti coinvolti. In ultimo si sofferma sui criteri di valutazione dell’affido: è necessario considerare la compatibilità tra le esigenze del minore, le caratteristiche della famiglia d’origine e la disponibilità di quella affidataria. I margini strettamente umani e soggettivi dell’approccio ad un ambito così delicato come quello minorile non possono essere ignorati neanche dalla legge: lo sviluppo psichico del bambino e gli effetti che su esso può avere l’affido devono essere continuamente monitorati.
 La voce più intensa dell’incontro proviene dalle associazioni affidatarie, in particolare da Roberto De Certo (foto a lato) di “Il Nido di Pippi” e da Riccardo Ripoli di “Gli Amici della Zizzi”. La nascita di entrambe ha origine dal dolore personale di una perdita e dalla voglia di aiutare gli altri in modo concreto. Toccanti le parole di De Certo che racconta commosso la difficoltà di portare avanti la sua “famiglia allargata” con il contributo dello stato, reso irrisorio dalla presenza di bambini portatori di handicap; inoltre chiede modifiche alla legge regionale sull’affido, per la parte che riguarda il raggiungimento della maggiore età e l’automatica dissoluzione del supporto: a quel punto l’ex minore è tutt’altro che autonomo e le spese per farlo crescere e formare aumentano notevolmente.
 Ripoli (a lato) invece riferisce del suo progetto di costruire un centro per ragazzi in affidamento, di dare sostegno alle famiglie affidatarie, ma anche alle famiglie in difficoltà per prevenire l’allontanamento del minore.
 Altre richieste alla Regione provengono da Annamaria Columbu (foto accanto), portavoce del Coordinamento associativo in Toscana Ubi Minor per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini. Con parole disilluse fa notare la mancanza di concretezza di molti progetti, l’insufficienza dei Centri Affido in regione e l’autonomia di intenti della rete socio-sanitaria. Propone quindi una serie di interventi per migliorare la situazione e promuovere il tema dell’affidamento.
A lei si affiancano anche il vice responsabile e l’assistente sociale del Centro Affido di Firenze (impegnato nella promozione dell’affido sul territorio e nella preparazione delle famiglie affidatarie), Daniele Maltoni e Mariella Giunti (nella foto in alto), i quali ancora una volta rilevano la necessità di un’integrazione di tutti i soggetti coinvolti nella cura e nell’accoglienza ai minori (servizi, Tribunale, ASL, associazioni), perché solo uniti si possono ottenere risultati reali ed efficaci.
Rappresentante della Regione Toscana Lorella Baggiani (sopra), la quale illustra i progetti della Regione e i miglioramenti che si sono avuti negli ultimi anni.
 Tutti i partecipanti sembrano condividere gli stessi obiettivi e le stesse modalità d’azione, d’accordo sull’importanza della collaborazione assidua e della tutela del minore. È solo il primo passo di un percorso che si vuole intraprendere. L’Assessore al Welfare Salvatore Allocca (a lato) e il moderatore Alessandro Margaglio tirano le somme della mattinata: nonostante i consistenti tagli fatti al sociale e la riduzione della disponibilità da parte delle famiglie all’affido di minori, tanto si può e si deve fare sia dal punto di vista legislativo che operativo.
di Mariagiovanna Grifi
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Nativi digitali: chi sono?
Un termine molto usato per definire le nuove generazioni, ma cosa significa realmente? Di Mariagiovanna Grifi
Di solito si parla di “nativi digitali” per definire i bambini e gli adolescenti dei nostri giorni, nati nell’era tecnologica e quindi sin da subito a contatto con i nuovi media digitali. Il termine nasconde, in realtà, riflessioni un po’ diverse e viene coniato dagli studiosi di una nuova disciplina psicologica detta appunto “psicologia della comunicazione” o anche “psicologia dei nuovi media”.
I nativi digitali sono tutti quelli in grado di usare le nuove tecnologie in modo intuitivo e senza alcuno sforzo. È naturale, quindi, che nel termine siano comprese anche le generazioni “meno giovani” nate negli anni ’70 e ’80… insomma la maggior parte dei genitori di oggi, in fondo, sono anch’essi nativi digitali… nati quando già erano stati inventati i computer e capaci di usare intuitivamente alcuni media (per esempio il cellulare e i suoi sms, le mail o le chat in rete). Cosa distingue, allora, i nativi digitali “adulti” dai nativi digitali “giovani”? La generazione. Esistono ben quattro generazioni diverse di nativi digitali, ognuna di esse è caratterizzata dall’acquisizione di nuove capacità che modificano anche i processi cognitivi, ossia la loro mente. Vediamoli:
GENERAZIONE TEXT: nati negli anni ’70-’80, sono i primi ad essere entrati in una comunità virtuale (mail e chat) e ad aver creato nuovi linguaggi (acronimi e abbreviazioni negli sms). Cambia la concezione dello spazio, si fa esperienza di “luoghi senza luogo” dove incontrare persone, qualsiasi persona, e inizia ad esserci confusione nelle relazioni (parenti e amici sono messi sullo stesso piano dei conoscenti in rete).
GENERAZIONE WEB: nati negli anni ’90, sono ben presto diventati “spettattori”, ossia spettatori partecipi della rete multimediale in grado di operare ricerche sul web in modo autonomo e personale (uso dei motori di ricerca come Google per cercare informazioni). La mente comincia a lavorare in modo diverso, si creano schemi mentali più simili a quelli del computer (più “finestre” che si aprono nella mente, ciò comporta il fare più cose contemporaneamente e perdere, quindi, una fetta di attenzione).
GENERAZIONE DEI SOCIAL MEDIA: nati negli anni 2000, quando si afferma il web 2.0 (ossia i social), cambiano le relazioni e nasce l’interrealtà, ossia uno spazio relazionale ibrido in cui mondo reale e mondo virtuale si mescolano tra loro (si è amici sia nella vita quotidiana che in rete) e si diventa “spettautori”, ossia si creano contenuti sul web (basta pensare a Wikipedia, ai forum e ai Social Network). Questi nativi digitali sono soliti creare la propria identità sociale virtuale che non sempre coincide con quella reale, con le notevoli conseguenze a livello psicologico in termini di emotività e di autostima.
GENERAZIONE TOUCH: nati dopo il 2007, nell’era dei tablet e degli smartphone, i media sembrano essere il prolungamento del loro corpo. Non è più necessario saper leggere e scrivere per usare le tecnologie, i “baby nativi digitali” ampliano i confini del corpo e usano i cinque sensi per relazionarsi con i media. Oltre a cambiare, quindi, la percezione del corpo, diventa possibile fare qualsiasi cosa in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Aumenta la freneticità del quotidiano, si riduce notevolmente l’attenzione.
Una delle conseguenze maggiori dei cambiamenti psicologici nei nativi digitali riguarda le emozioni. Oggi si parla di “analfabetismo emotivo”. Se i media hanno reso possibile l’aumento delle relazioni interpersonali e di conservare anche i rapporti a distanza, hanno ridotto l’empatia. Come gli ultimi studi rivelano, l’uomo riconosce le emozioni prima negli altri e poi in sé, ma per farlo deve vivere i rapporti face-to-face, altrimenti le emozioni vengono esplorate solo nella nostra mente a livello razionale. Cosa comporta?
Non saperle comprendere, non saperle accettare, cercare di reprimerle ed… essere incapaci di gestirle.
Mariagiovanna Grifi di Sophia e Creatività
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Nuovi italiani
Nati in Italia da genitori stranieri e trattati come “diversi” anche dopo la maggiore età! Insegnanti, autorità e dirigenti scolastici si confrontano sull’educazione interculturale a scuola nel II Convegno Nazionale “A scuola nessuno è straniero”. Di M.Grifi
La presenza di alunni stranieri nelle scuole italiane corrisponde al 7,5 % e in Toscana arriva anche al 12%. Non si tratta tanto di minori che arrivano dal loro paese per ricongiungersi con i familiari già presenti in Italia, ma di bambini nati proprio nella nostra penisola da genitori immigrati: la cosiddetta “seconda generazione”. Questo significa che non è più appropriato parlare di “stranieri”, ma piuttosto di “nuovi cittadini”, i quali iniziano il loro percorso scolastico (e di vita) in Italia, paese che spesso conoscono meglio di quello dei propri genitori.
L’argomento è stato altamente dibattuto il 30 settembre presso il Palazzo dei Congressi di Firenze al Convegno Nazionale “A scuola nessuno è straniero” (dal titolo del libro della pedagogista Graziella Favaro, referente scientifica del meeting), a cui hanno partecipato insegnanti e dirigenti scolastici di ogni ordine e grado. La mattina sono stati organizzati cinque seminari diversi in contemporanea che hanno affrontato tematiche relative all’intercultura a scuola: l’integrazione dei più piccoli, l’apprendimento dell’italiano, le scelte formative nella scuola secondaria, la cittadinanza e la scuola, il curricolo interculturale. Molto interessante il racconto di alcune scuole dell’infanzia, tra cui una di Castel San Pietro (BO), che hanno mostrato i progetti di integrazione realizzati con le loro classi coinvolgendo i genitori dei bambini, italiani e non, nella narrazione di storie o nella realizzazione di laboratori attraverso l’uso di lingue e tradizioni culturali differenti. Un metodo per creare una comunità unica in cui i figli sin da piccolissimi imparino ad apprezzare la diversità e il valore della multiculturalità.
Degna di nota anche la relazione del Prof. Franco Favilli, docente di Matematiche Complementari e Direttore del Centro di Ateneo di Formazione e Ricerca Educativa dell’Università di Pisa, il quale ha portato l’attenzione sul cambiamento intercorso negli ultimi anni: dall’emergenza di accogliere i nuovi arrivati in Italia si è passati al bisogno di includerli nei percorsi formativi per evitare i rischi di esclusione, che riguardano anche altri gruppi marginali non necessariamente stranieri. In questa prospettiva l’educazione interculturale diventa “educazione per tutti”, con grande concentrazione sul singolo ed i suoi bisogni seguendo un metodo cooperativo e partecipativo. Non sono mancati esempi di scuole che hanno adottato con successo questo sistema educativo.
Durante il pomeriggio si sono riuniti in una sessione unica tutti i partecipanti con i rappresentanti degli enti organizzatori del congresso: Stella Targetti, Vicepresidente della Regione Toscana delegato all’Istruzione, la già citata Favaro (entrambe nella foto in alto), Carla Ida Salviati, Direttore della rivista dedicata alla didattica interculturale “Sesamo” edita da Giunti Scuola (e delle riviste “La Vita Scolastica” e “Scuola dell’Infanzia”). La parola è stata lasciata ai due giovani ospiti, ormai in età universitaria, “nati in Italia”: Sara Sayed, egiziana, e Hassan El Aouni, marocchino (nella foto in basso). Sara è nata a Milano, dove è tornata a vivere, dopo essere cresciuta al Cairo, a 8 anni. Nella nuova classe in Italia era l’unica bambina straniera, le maestre ed i compagni avevano per lei grande attenzione. L’apprendimento della lingua e la scuola non sono stati tanto difficoltosi, ciò che le ha causato disagio, e che continua tuttora a farla sentire “diversa”, è il concetto di appartenenza: non sa dire quale sia la sua identità, in lei convivono di fatto due culture, ma sono sue e “non-sue” allo stesso tempo. Il confronto con gli adulti, e con i professori universitari in particolare, le ricorda ogni giorno questo enigma: la sua conoscenza della lingua italiana o, viceversa, della cultura dell’Egitto sono sempre un interrogativo per chi si rapporta con lei, un dubbio che genera equivoci, domande e imbarazzi.
Più chiarificatore l’intervento di Hassan: “Io so di essere marocchino, so di essere italiano, so di essere viennese (di adozione), ma soprattutto so di essere milanista!”, afferma. Lui confida di non aver “perso” la sua origine, ma che casa sua è l’Italia, dove è sempre vissuto. Per accettarsi nella sua identità/diversità ha dovuto superare tanti ostacoli causati dagli stereotipi e dalle forme di razzismo che ancora fanno parte di molte persone. Ha capito che la sua diversità è un valore, una ricchezza quando “tu l’accetti e gli altri l’accettano”. Un “nuovo italiano”, quindi, secondo l’affermazione di Marina Bertiglia, Responsabile dei Servizi Didattici del Comitato Italia 150° (organo temporaneo nato in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia), la quale sostiene con convinzione il cambiamento di un’ “Italia plurale” (come cita il sottotitolo del convegno) che dopo 150 anni accoglie e include “nuovi cittadini”.
Il meeting si è concluso con il bellissimo intervento di Vinicio Ongini (MIUR) sulle Fiabe Italiane di Italo Calvino: autore nato a Cuba, perché era lì che i genitori vivevano, desiderosi di tornare in Italia. Le fonti delle sue favole sono quasi tutte donne provenienti da paesi diversi, le storie che narrano sono patrimonio comune delle regioni italiane, ma che profumano di terre lontane. Così l’opera di Calvino non si limita a raccontare fiabe locali, ma propone una raccolta di tradizioni nazionali, regionali e straniere, rappresenta un’iniziativa (come è stato il progetto conclusosi quest’anno) che unisce le differenze e che oggi, più che mai, può essere spunto di riflessione per un’ educazione interculturale inclusiva.
di Mariagiovanna Grifi
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Un’idea tira l’altra: esercizi di scrittura creativa
Come farsi venire le idee di fronte al foglio bianco? Esistono alcuni trucchetti per superare questo grande ostacolo, vuoi provare a metterti in gioco durante l'estate? Di Mariagiovanna Grifi
Grandi e piccini si ritrovano spesso a soffrire di una grave forma di ansia: quella del foglio bianco. E con il file word del pc ancora immacolato non è che la situazione cambi di molto. Cosa scrivere? Come iniziare? La scrittura segue l’ispirazione, è un processo spesso inconscio e automatico, eppure ogni giorno siamo chiamati a dover scrivere in un tempo e in un luogo determinati. Gianni Rodari cercò di invogliare i bambini a inventare storie con il suo magnifico libro Grammatica della fantasia, in cui, oltre a proporre utilissimi esercizi di scrittura, sottolineava il valore del gioco, del divertimento e della creatività. Non c’è cosa più folle che unire insieme parole, personaggi, azioni, luoghi e tempi incompatibili nella realtà, ma che nella nostra fantasia possono tutto. Il suo invito era chiaro: liberarsi dal peso e dalla logica della vita reale e viaggiare in un mondo dove ogni cosa è possibile.
 In omaggio al capitolo di Rodari “Il binomio fantastico” vi propongo due trucchetti per uscire da quella sensazione terribile che coglie sia i bambini che gli adulti quando devono scrivere qualcosa di inventato. Una storia, una filastrocca, un indovinello. In fondo il problema è tutto nell’iniziare, una volta giunta l’ideaalla nostra mente il resto viene da sé. Grazie all’esercizio del “binomio fantastico” e del “sole delle parole” non sarà più tanto difficile creare nuove idee. Cominciamo?
Il binomio fantastico consiste nello scegliere due parole qualsiasi per la vostra storia. Più le paroline sono distanti tra loro per significato e contesto, più sarà divertente cercare di combinarle in un racconto avvincente. La cosa più semplice da fare è collegarle tramite proposizioni (“la… del…” oppure “il… nel…” ect) e pensare poi al perché si trovano in questo rapporto (come mai, per esempio, “il cane” è “nell’armadio”?). Da un semplice esercizio possono uscire storie molto interessanti. Oppure si può prendere ogni parola singolarmente e creare altre parole con le lettere che la compongono (per esempio con “mela” troviamo altre quattro paroline che cominciano con “m”, “e”, “l” e “a”). Ecco che da due semplici parole ora avete tantissimi altri termini da usare nella vostra narrazione.
Il sole delle parole è molto simile al binomio fantastico. Anche qui si tratta di scegliere una, due, tre parole isolate (quante ne volete). Metterla ognuna al centro di un cerchio e da questo far partire una serie di raggi. Per ogni parola, quindi, si cercano un po’ di aggettivi, ognuno dei quali viene posto all’estremità del raggio solare. Una volta presenti sul foglio più parole e più aggettivi provate a scrivere un breve racconto che contenga tutti i termini. Anche in questo caso lasciate andare libera la vostra fantasia, non importa se quello che scrivete non ha corrispondenza nella realtà. L’importante è creare e divertirsi.
Naturalmente anche la scelta delle parole chiave deve essere fatta con serenità. Scrivete le prime cose che vi vengono in mente. Fidatevi del vostro sentire, spesso racchiudiamo in noi storie meravigliose senza saperlo!
Durante l'anno scolastico è sempre difficile ritagliarsi un po' di tempo per questi giochi creativi di scrittura. Allora perché non approffittare delle vacanze estive? Sono giochi molto più utili dei soliti esercizi...
Buon divertimento e buona estate.
Prof. Mariagiovanna Grifi
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Una “dieta digitale” per seguire le naturali fasi di sviluppo
Come conciliare l’uso delle tecnologie con lo sviluppo del bambino? Ragioniamo insieme prendendo spunto dagli studi dello psichiatra e psicanalista francese Serge Tisseron.
Di Mariagiovanna Grifi
Il cruccio maggiore dei genitori nella cosiddetta “era digitale” è spesso quello di dosare l’uso delle tecnologie da parte dei loro figli. Molti si chiedono quanto tempo li si possa lasciare davanti la TV o giocare con un videogioco. Continuamente il timore è che questi apparecchi possano sostituire i vecchi giochi didattici di una volta compromettendo il naturale sviluppo del bambino. In effetti è un problema che un genitore deve necessariamente porsi. Senza demonizzare le tecnologie, che esistono e vanno usate, gli esperti sempre più propongono delle vere e proprie “diete digitali”, con tanto di tabella in cui le dosi variano a seconda dell’età. Proveremo di seguito a dare qualche consiglio utile in tal senso, tenendo conto delle fasi di sviluppo psicologico del bambino.
Bambini dai 0 ai 3 anni: la conoscenza avviene tramite i cinque sensi, quindi per loro è molto importante avere chiari riferimenti spazio-temporali. Può essere sicuramente più indicato l’uso dei tablet rispetto alla televisione, almeno in questi dispositivi immagini e suoni si coniugano con la dimensione “touch” proponendo un tipo di esperienza sensoriale. Questo non significa che avere un tablet in famiglia sia necessario per lo sviluppo del bambino, i giochi tradizionali mantengono il loro alto valore pedagogico e nessuno “resterà indietro” se entrerà a contatto con i nuovi media successivamente (sono generazioni che imparano presto, anche se non abituati sin da piccini!). La TV risulta dannosa perché viene fruita in modo passivo, ma anche per un altro motivo: siamo nel periodo dell’imitazione, i bambini tendono a simulare i comportamenti dei genitori (guai se sono loro a passare troppo tempo davanti la TV, i figli faranno lo stesso!) e possono facilmente assimilare le azioni che vedono nello schermo (quindi la TV accesa è deleteria anche quando i bambini non la stanno guardando direttamente!).
Bambini dai 3 ai 6 anni: cominciano l’esplorazione dei propri pensieri (e capacità) e le relazioni con gli altri, è fondamentale qualsiasi attività che incentivi la socializzazione. Inutile sottolineare che TV e media abituano alla solitudine; raramente i bambini usano i dispositivi in compagnia degli amici e, quando capita, finiscono per isolarsi ognuno con il suo. In questa fase di sviluppo, inoltre, si impara a fare ampio uso dell’immaginazione, i piccoli scoprono la loro creatività sia attraverso la mente (fantasticare) che attraverso il corpo (giochi creativi, per esempio di manipolazione). Limitare l’impiego delle tecnologie non significa vietarlo, semplicemente scegliere i momenti e i tempi giusti, scegliere i programmi/film adeguati e i videogiochi più adatti all’età.
Bambini dai 6 ai 9 anni: in questi anni avviene la scoperta delle regole sociali e si acquisiscono le prime abilità. I bambini imparano a relazionarsi con gli altri seguendo norme che garantiscono i valori fondamentali come la giustizia, il rispetto, la responsabilità. È il gioco sociale il migliore strumento per appropriarsi di queste prescrizioni, facendole proprie e potendole applicare nei contesti più disparati (in famiglia, a scuola, con gli amici, nello sport). Finalmente i genitori possono avere un confronto più diretto con i loro figli, spiegando per bene il perché dei divieti e commentando insieme le diverse circostanze. I media adesso possono essere usati in modo più tecnico per favorire lo sviluppo di nuove competenze, per esempio la fotografia e i video. È importante in questo momento trasmettere il significato del rispetto delle immagini. Un genitore fotografato (o ripreso) può pretendere che una foto (o un video) venga cancellata se non gli piace come è ritratto. Può essere un insegnamento profondo che, in futuro, spingerà il ragazzo a chiedere sempre il permesso prima di pubblicare in rete foto e/o video altrui.
Ragazzi dai 9 ai 12 anni: siamo alla fase più critica, quando i vostri figli chiederanno di avere un telefono cellulare e inizieranno a conoscere sia il mondo fuori che in rete. Per il cellulare, più tardi riuscirete a comprarlo meglio sarà per voi (e per lui), ma quando arriva il momento è bene dare subito delle regole (per esempio quando non usarlo!). La cosa più urgente ora, però, è indirizzarli a un uso consapevole di Internet e della TV. Parlare di ciò che vedono sullo schermo serve a sviluppare anche le loro capacità narrative e comunicative, non solo la vista e l’ascolto passivo che i dispositivi spesso privilegiano. Bisogna sensibilizzarli ulteriormente sul diritto alla immagine e su quello alla privacy, fargli capire che quando qualcosa va online diventa di dominio pubblico e vi rimane per sempre; ancora: spiegargli che ciò che trovano sulla rete può anche essere falso. Tutti questi insegnamenti potranno essere molto utili nel momento in cui anche loro entreranno in un Social Network (per esempio Facebook).
Ragazzi dai 12 anni in su: l’adolescente dimostra un grande bisogno, quello di rendersi indipendente dagli adulti. È il momento in cui i vostri insegnamenti potranno dare i loro frutti, ma solo se l’attenzione resterà costante: la connessione a Internet deve essere limitata (specie nelle ore notturne) e, comunque, è necessario tenerla “sotto controllo”. Attenzione: non significa spiarli né stargli addosso, questo provocherebbe solo un grande conflitto. Basta che siano in vigore ancora regole e limiti nell’uso delle tecnologie, che sia la TV o Internet. Se il ragazzo passa molto tempo in rete senza avere ripercussioni sul suo rendimento scolastico o sui suoi rapporti sociali, allora non è il caso di allarmarsi. Piuttosto potete cercare di capire, parlando con lui, se il suo interesse per l’informatica potrebbe essere tale da aprirgli una strada lavorativa futura, o se ha sviluppato una creatività digitale che potrebbe gratificarlo da grande. Infine, è importante sapere se usa la rete per rimanere in contatto continuo con i suoi amici reali o se preferisce giocare da solo. Se la rete incentiva la socializzazione è positivo, se spinge alla solitudine c’è da preoccuparsi. Bisogna ricordare e accettare che i ragazzi di oggi hanno una rete relazionale ibrida, in cui reale e virtuale sono fortemente intrecciati.
Fonte: Questo contributo prende spunto dagli studi di psicologia dello sviluppo sul rapporto tra infanzia e media, in particolare da un articolo presente nel n.243 (maggio-giugno 2014) della rivista bimestrale «Psicologia contemporanea» della casa editrice Giunti. Questo argomento è stato trattato in modo più approfondito da Serge Tisseron nel suo libro “3-6-9-12 Apprivoiser les écrans et grandir”, Éditions Érès, Tolosa, 2013.
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Una giornata al nido
L’ingresso al nido spesso è un trauma per i genitori che non sanno come il proprio figlio trascorrerà la giornata senza di loro. Di Mariagiovanna Grifi
A volte avere maggiori informazioni dà un po’ di conforto. Separarsi dai figli piccoli non è facile, anche perché una madre si sente l’unica a sapere di cosa ha bisogno il proprio bambino, l’unica che lo conosce veramente e può rispondere alle sue esigenze. Per questo motivo l’inserimento al nido prevede una serie di incontri e molta collaborazione tra l’educatrice e la famiglia, proprio per imparare le abitudini del piccolo ed evitare uno squilibrio nel processo di cambiamento e crescita che l’ingresso al nido comporta. Eppure le ansie genitoriali rimangono: cosa accadrà a mio figlio ora? Chi si prenderà cura di lui? Sarà una persona competente? Quali attività gli faranno fare? I dubbi sono tanti, le paure ancora di più. Ma a crescere bisogna essere tutti: genitori e figli, tutti pronti per una nuova vita più autonoma.
Un primo aspetto confortevole è che oggi i servizi per l’infanzia non sono più un luogo di semplice assistenza ma sono strutturati per incrementare lo sviluppo del bambino in tutte le sue forme (cognitivo, affettivo, motorio ecc.). Per questo motivo viene posta attenzione sulle attività da svolgere e anche sul modo in cui vengono svolte. La giornata al nido, infatti, è organizzata secondo le routine, ossia momenti che si ripetono ogni giorno nello stesso identico modo per permettere ai bambini di imparare regole, di acquisire sicurezza e di costruire relazioni. Infatti, le routine sono un ottimo strumento per incrementare aspetti complessi dello sviluppo del bambino come l’autostima, il senso di sicurezza, le abilità di linguaggio, cognitive e motorie, la capacità di espressione emotivo-affettiva e le competenze sociali.
Le principali routine sono: il cambio, la colazione e il pranzo, il sonno. Momenti molto delicati poiché il primo e il quarto prevedono un rapporto molto intimo con l’educatrice di riferimento del bambino, sono fondamentali per la scoperta del sé corporeo e delle proprie emozioni, mentre la colazione e il pranzo sono occasioni di apprendimento (soprattutto delle regole) e di socializzazione. Durante la giornata al nido, poi, ci sono altri due momenti importanti: l’ingresso e l’uscita, anch’essi strutturati in modo abbastanza abitudinario per non creare disorientamento ai bambini. Durante le altre ore della giornata vengono proposte ai piccoli attività che stimolano la creatività, la fantasia, le abilità cognitive e motorie. Si tratta di giochi divertenti ma con un alto valore educativo, studiati appositamente per le varie fasce d’età.
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